Pubblico questo bellissimo articolo di Roberto Saviano, perché mi ha fatto ricordare quanto è importante amare gli altri, quanto amare le giovani generazioni, quanto insegnar loro ad amare.
Hanno bocciato Gomorra
di Roberto Saviano
Hanno bocciato Totò e Simone e altri dieci ragazzini che hanno recitato in ‘Arrevuoto’. E hanno recitato nel film ‘Gomorra’. Sono stati attori nei teatri più famosi d’Italia. Hanno avuto i complimenti del presidente Napolitano che era andato a vederli alla prima al Teatro Mercadante e poi li aveva salutati uno per uno. Il presidente si era pure lasciato dipingere la faccia di nero da un pulcinella nervoso inserito nello spettacolo. Al Festival di Cannes, il più importante festival del cinema internazionale, hanno ottenuto uno dei tre premi maggiori: il Premio speciale della giuria. Eppure alla scuola media Carlo Levi di Scampia li hanno bocciati.
Per Cannes parto insieme a loro e tutta la troupe, tranne Matteo Garrone che è venuto da Roma con un furgone. L’aereo si riempie delle voci e delle grida di Totò e Simone, Marco e Ciro, e tutti gli altri ragazzi del film. Ma c’è un po’ di ansia per il volo e di emozione per i giorni che ci attendono. Dopo l’atterraggio le nostre strade si dividono. Mi aspettano all’uscita dell’aereo gli uomini della scorta francese, due auto blindate e tre motociclisti: una cosa mai vista prima. Sono i corpi speciali, ansiosi di rimarcare subito che loro non accompagnano divi del cinema, stelle e stelline. “Questo lo fanno i poliziotti privati, noi no”, mi dice il caposcorta tradotto da un altro poliziotto in uno strano napoletano, un napoletano con l’accento francese. “L’ho imparato ascoltando Pino Daniele”, spiega e aggiunge che l’ha perfezionato facendo da interprete a Vincenzo Mazzarella, camorrista di San Giovanni a Teduccio, arrestato proprio a Cannes qualche tempo fa. Colgono l’occasione per ricordarmi che la città è amatissima dai mafiosi di mezzo mondo. Infatti non sembrano proprio tranquilli.
Pure Luigi Facchineri, un boss della ‘ndrangheta, era stato qui dal 1987 sino al suo arresto nel 2002. Le mafie investono negli hotel, nei lidi, nei ristoranti, e rimpinzano di coca i nasi di villeggianti, turisti e gente del Festival di cui il Lido ora è gremito.
La mattina del nostro arrivo il popolo del Festival – munito di macchine fotografiche digitali, videocamere così piccole che stanno nel palmo di una mano e alla peggio di telefonini – è tutto concentrato su Harrison Ford che, come sanno tutti, è arrivato per presentare fuori concorso l’ultimo episodio della saga di Steven Spielberg. Io che lo vedo da vicino, penso: “Menomale non ci sono pure i ragazzi”, anche se probabilmente loro non si esaltano per Indiana Jones come facevo io quando ero bambino. Harrison ha ormai una pancia pronunciata, è invecchiato parecchio anche in volto e a tutti quelli che lo avvicinano, lui si presenta come Indy. Fa quasi tenerezza, come quei Babbo Natale che entrano a pagamento nelle case esclamando: “Buon Natale e auguri, cari bambini!”.
Ma anche se non incrociano Indiana Jones e non credono più a Babbo Natale da anni che sembrano una vita, i ragazzi di ‘Gomorra’ a Cannes sono su di giri forse più di quanto fossero da piccoli il giorno della Vigilia. Alla proiezione per i giornalisti parte il primo grande applauso e la conferenza stampa è affollatissima. Io dedico il successo a Domenico Noviello, l’imprenditore ucciso proprio mentre stavamo per partire, perché sette anni fa si era rifiutato di pagare un’estorsione ai clan dei Casalesi. Per quanto la cosa sia accolta bene, devo scacciare la sensazione che in tutto questo vi sia qualcosa di sbagliato e di assurdo. Fuori le moto della scorta dei corpi speciali francesi, gli agenti sempre in tensione e al contempo sempre pronti a ragguagliarmi su tutti i peggio personaggi delle peggiori organizzazioni criminali al mondo che investono e circolano per la Costa Azzurra. E io qui, di fronte alla crème della critica cinematografica internazionale, accanto a tutti quelli che hanno dato vita a questo film, inclusi i ragazzi di Montesanto e di Scampia. Quello che parla più di tutti è Ciro ribattezzato Pisellino da uno zio perché somiglia al bambino arrivato a Braccio di Ferro e Olivia con un pacco postale. Ha una maschera secolare, il suo viso pallido dal naso lungo riassume magrezze seicentesche, un Pulcinella o un santo dipinto da un pittore spagnolesco. Ciro è fruttivendolo alla Pignasecca, un mercato del centro storico. Un mestiere tosto, ti tocca svegliarti all’alba, ma lui è allegro, guadagna bene rispetto ai suoi coetanei e si tiene lontano da casini.
I giornalisti gli fanno delle domande a trabocchetto. “Se non avessi fatto il fruttivendolo?”. E lui secco: “Avrei fatto il barista”. “D’accordo, e se non avessi fatto nemmeno il barista?”. Allora lui capisce dove vogliono arrivare. “No, no, vi sbagliate: io il camorrista mai! A parte i soldi, fai una vita orrenda. E poi mia madre sta ancora piangendo per avermi visto morto ammazzato nel film, figuratevi se succedeva veramente.”.
Applausi
Ciro e Marco – che sono anche più grandi – vengono dai quartieri popolari del centro storico, non da Scampia come Totò e Simone. Per loro la vita è un po’ più facile: le vicende di famiglia che hanno alle spalle se non possono dirsi idilliache, sono almeno un po’ meno pesanti. Invece per quei ragazzini di Scampia di 12 o 13 anni lo spettacolo tratto da Aristofane e da Alfred Jarry, e poi il film e il Festival di Cannes non dovevano essere soltanto vacanze di Natale da una vita che già alla loro età sembra segnata. No, era l’opportunità di provare a mettere i piedi in una vita fatta diversamente o almeno riuscire a immaginarsela possibile. Diceva Danilo Dolci: “Cresci soltanto se sei sognato”. E mi viene in mente proprio la sua più bella poesia: ‘Ciascuno cresce solo se sognato’:
“C’è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c’è chi si sente soddisfatto
così guidato.
C’è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c’è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.
C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.”
Non li hanno sognati questi ragazzini. Eppure avevano fatto molto per mostrare, forse fuori dall’aula scolastica, il loro talento, gli elementi per sognarli in maniera diversa da come la vita ti determina in queste zone. Eppure li hanno bocciati. Non stiamo parlando di studenti modello. Non stiamo neanche parlando di scolaretti fermi nelle loro sedie che si impegnano e però non ce la fanno. Stiamo parlando di ragazzini spesso esagitati, che ti rispondono con un ghigno, che appena possono non si presentano in classe, che aizzano i compagni alle peggio cose. Ma questo è solo un aspetto. I professori che hanno bocciato Totò, Simone e gli altri perché non sono stati rispettosi delle regole e non hanno raggiunto gli obiettivi didattici, credono di aver agito per il bene della scuola e si sentono in pace con se stessi. Invece hanno fallito clamorosamente nel confrontarsi con quegli alunni e pure con l’offerta di un’educazione alternativa che hanno incontrato fuori dalla scuola. Forse perché non riescono ad accettare che questa possa essere venuta da qualcun’altro, forse perché ritengono intollerabile che fosse presentata pure sotto forma di qualcosa che è anche divertente e gratificante, di certo più divertente e gratificante che andare a scuola. Non si è mai visto che dei ragazzini difficili di un degradato comune di periferia, possano per due giorni stare accanto alle star, essere autorizzati a sentirsi un tantino come loro. Meglio bocciarli che rischiare che si montino la testa!
Le star a Cannes poi ovviamente non sono i ragazzi di ‘Gomorra’, ma nemmeno Emir Kusturica e neppure Catherine Deneuve. Qualche piccolo scatto, ancora meno autografi e nulla più. Anzi spesso se dietro a loro arriva qualche famoso attore hollywoodiano, qualcuno nella folla comincia fare gesti con la mano, secchi e inequivocabili, come a dire: su muovetevi, levatevi di torno, fatemi fare una foto soltanto con la vera star. Tony Servillo ci scherza sopra, elegantissimo sfila fuori dell’hotel mentre i fotografi zoomano per capire chi è arrivato. Ma lui stesso risponde: “Nun simme nisciun’, che fotografate a fa’, mo’ mo’ vedete che arriva Indiana Jones”.
Nonostante la formula vincente del Festival consista nel premiare film d’autore prevalentemente non hollywoodiani e al contempo far arrivare da Los Angeles gli ultimi ‘De’, i soli per cui la gente si pesta i piedi, quasi tutti gli attori non americani sembrano risentirsi di essere considerati semplici professionisti e comuni mortali come gli altri. Per cui ha ragione Ciro quando a cena sostiene esaltatissimo che ora Monica Bellucci non potrà rifiutarsi di avvicinarsi a lui. È un attore e non un fan qualsiasi. Ora sono colleghi. E poi da Montesanto alla Pignasecca tutti gli hanno sempre detto che somiglia a Vincent Cassel. Il giorno dopo incrocia proprio Monica Bellucci. “Sai”, le fa, “mi dicono che sono tale e quale a tuo marito”. E Monica gli dà un bacio. Premiando la sua bravura come attore e forse pure la somiglianza col suo uomo.
Mi fa uno strano effetto essere a Cannes con tutti loro, deluso da quella che mi sembra una Riccione solo più cara, marcia e pretenziosa, contento di stare insieme con tanti ragazzi di Napoli, cosa che non mi capitava più da molto. Ma non ci sono più abituato e quando me ne accorgo, faccio fatica a continuare a scherzare, mi irrigidisco.
La mattina mi siedo a fare colazione nella hall dello storico, sontuosissimo Hotel Majestic, ma dietro i poliziotti francesi mi costringono a consumare tutto in fretta. Prendo una spremuta che costa 20 euro, incredibile. Una ragazza mi chiede se si può sedere, gli agenti la perquisiscono e io mi sento in imbarazzo, ma non parlando una parola di francese, non so come dirgli di lasciar perdere. Lei inizia a discutere del mio libro, a farmi varie domande e infine dice: “Se oggi non hai molto da fare passerei del tempo con te, basta che mi paghi il ritorno in taxi a Nizza, 800 euro”. Al che capisco. “Hanno spostato Nizza in Corsica”, rispondo, “visto che costa tanto?”. Più tardi chiedo delucidazioni a un barista che ho scoperto essere mio paesano e la sua risposta è chiarissima: “Quelle che girano qui nella hall sono tutte mignotte”. Ce ne sono di arrivate da tutto il mondo e viene malinconia a vederle avvicinarsi ai proprietari degli yacht che galleggiano sui moli. Sembrano figlie con i padri pigri e chiatti, inoltre sistematicamente piuttosto alticci. Questo è solo l’esempio più evidente di come a Cannes non riesca a trovare proprio nulla di elegante e chic, solo la stessa cafonaggine di altrove concentrata e elevata all’ennesima potenza.
E poi è tutto vagamente schizofrenico. Marco comincia a ripetere che gli manca Napoli che non sono passati neanche due giorni, però la nostalgia non conosce limiti né orologi, e per la cena dopo la proiezione ufficiale ci portano in una pizzeria di nome Vesuvio. Matteo Garrone è stanco e riesce solo a dirmi, “abbiamo fatto tanto per evitare il folklore ed eccoci qua, in tutta Cannes, dove dovevamo capitare”. Quel che continuamente rimbalza nella mia testa per tutta la serata è “che ci faccio qui ?”. I ragazzi del film sono fantastici, ma mi trattano come se fossi il loro datore di lavoro. Io col film c’entro pochissimo, eppure Marco non si convince e taglia corto “chi mi dà il pane mi diventa padre”. Brindiamo al successo di ‘Gomorra’ e mi accorgo che sono forse più di due anni che non mi trovo più con tante persone intorno, risate, brindisi, gioia e allegria di tutti quanti insieme. Non sono nemmeno più abituato a sedermi a tavola e mangiare se non con la mia scorta. Avverto insieme un senso straziante di solitudine e la felicità di assistere a quella che manifestano gli altri, soprattutto i ragazzi cui non gliene frega nulla di essere alla pizzeria Vesuvio. Perché loro dagli applausi della mattina e soprattutto da quelli ricevuti poco prima, hanno ricevuto la conferma di aver fatto una cosa grande e oltre a esserne felici, ne sono giustamente fieri.
Ma tutto il lavoro fatto per anni da questi ragazzi prima col teatro e col film, per i loro professori non conta nulla. Loro non vedono nemmeno che questo significa imparare qualcosa, doversi concentrare, ascoltare, prendersi un impegno. Per loro sono solo dei guappettelli già mezzi criminali che recitano se stessi, sai che ci vuole! Non colgono che questo sia già un’opportunità di vedere se stessi e il loro quotidiano con un occhio esterno, un’occasione per entrare in contatto con le proprie risorse creative, e neppure che stanno dando un contributo alla cultura. Va bene per il mio libro, o che non conoscano o apprezzino la patafisica dell”Ubu Re’ di Alfred Jarry, ma nemmeno ‘Le nuvole’ di Aristofane, una delle prime e più belle commedie della storia dell’uomo? Possibile che di tutta la grande pedagogia italiana da Maria Montessori a don Milani, ai maestri di strada come Marco Rossi Doria non sia rimasto proprio nulla?
Ed è per questo, per averli visti felici e orgogliosi, che la bocciatura di Totò, Simone e degli altri loro compagni mi mette addosso una rabbia che mi brucia. Un professore della Carlo Levi di Scampia mi ha confidato: “Hanno bocciato Totò, e questo in una scuola che non dovrebbe più bocciare né promuovere. Una scuola che si è arresa, là dove invece bisognava custodire la speranza. Hanno bocciato Salvatore e Simone addirittura all’esame di terza media. Questa è una scuola che sistematicamente sacrifica i più vivaci e intelligenti, i più irrequieti e imprevedibili”. E mi vengono in mente le parole di don Milani circa la scuola dell’obbligo dove sostiene che “bocciare è come sparare nel mucchio”.
Sul viaggio di ritorno che faccio sempre insieme ai ragazzi, il casino è anche maggiore che all’andata. Quando Simone si mette a fumare, scoppia il panico in tutto l’aereo, fumo, fuoco, oddio qualcosa brucia. “Mannamela a casa”, ossia mandami a casa la multa, risponde con noncuranza alle hostess che accorrono a ripetergli che è assolutamente vietato e che si prenderà una multa salatissima. Nessuno ci riprova più ad accendersi una sigaretta, però ci sono tanti altri modi per non stare belli e tranquilli per un’ora e mezza di volo. Alla fine però uno steward sa come prenderli: “Ma come, delle star del cinema come voi, si comportano così?”. E per quel tanto che occorre, in barba al corpo docente di Scampia, funziona.
Giorni dopo sono nella stanza del residence dove per il momento mi hanno messo. Fa caldo, sto a torso nudo, pantaloncini del Napoli, e non posso uscire. Ho davanti a me una bottiglietta di birra. Mi arriva la telefonata di Tiziana Triana della Fandango, piange, è emozionatissima, si sente un gran vociare in sottofondo, si sente male, riattacca quasi subito. A Cannes pare che abbiano vinto, non ho manco capito bene quale premio, più tardi vado a controllare su Internet. Ne è valsa la pena? mi domando. Cannes, edizioni straniere, e io rinchiuso in un residence. Da solo. E poi mi dico: forse se anche a momenti per quel che mi riguarda non ne sono certo, per qualcun altro invece sì. Poi mi porto alle labbra l’ultimo sorso di birra.
L’unico momento in cui il Festival e Cannes non deludono le aspettative di glamour e grandiosità, è la proiezione del film la sera. Mi tocca mettermi una cravatta, cosa che non ho mai fatto, nemmeno per la laurea, né per la lectio magistralis a Oxford. Non sono capace di fare il nodo. Xavier, il caposcorta, mi assiste con un certo imbarazzo, perché gli uomini non si fanno a vicenda i nodi alla cravatta. Visto che ho deciso di non fare la passerella sul tappeto rosso, perché la cosa non mi va e non mi spetta – sono uno che scrive, non uno che recita o dirige un film – mi fanno entrare da una porta laterale. Mi aspettavo una sala cinematografica, più grande, magari molto più grande, però normale. Invece è la versione ultramoderna di un anfiteatro. Centinaia di persone dinanzi allo schermo più grande al mondo.
Quando finisce il film, partono le note dei ‘Massive Attack’, un brano a cui tengo molto perché è nato dalla mente di uno del gruppo, Robert Dal Naja, che ha origini napoletane.
Alla fine ci sono gli applausi. Iniziano a sprazzi, a singhiozzo, di qua e di là dell’immensa sala. Poi lentamente, come tessere di un domino allineate in piedi che quando fai cadere una si buttano giù le une con le altre, tutte le file cominciano ad applaudire. E non finisce. Non appena smettono da qualche parte, da un’altra riprendono a battere più forte le mani, contagiando di nuovo tutto il teatro, come un’onda che scende e che sale.
Dopo 15 minuti di applausi cominciano a piangere tutti i ragazzi. L’unico che non piange è Totò. Si vede che si trattiene, ha gli occhi lucidi, però non piange. Gli faccio apposta: Eh, stai piangendo?”. E lui, sempre nella parte: “Io? Ma quann’ mai! A me non mi fanno proprio niente gli applausi”.
Forse Totò già allora aveva capito tutto.
2008 by Roberto Saviano.
Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency