Intransigenza-tolleranza, Intolleranza-transigenza
Antonio Gramsci – 8 dicembre 1917
Intransigenza è il non permettere che si adoperino (per il raggiungimento di un fine) mezzi non adeguati al fine e di natura diversa dal fine.
L’intransigenza è il predicato necessario del carattere. Essa è l’unica prova che una determinata collettività esiste come organismo sociale vivo, ha cioè un fine, una volontà unica, una maturità di pensiero. Poiché l’intransigenza richiede che ogni singola parte sia coerente al tutto, che ogni momento della vita sociale sia armonicamente prestabilito, che tutto sia stato pensato. Vuole cioè che si abbiano dei principi generali, chiari e distinti, e che tutto ciò che si fa necessariamente dipenda da essi.
Perché, dunque, un organismo sociale possa essere disciplinato intransigentemente è necessario che esso abbia una volontà (un fine) e che il fine sia secondo ragione, sia un fine vero, e non un fine illusorio. Non basta: bisogna che della razionalità del fine siano persuasi tutti i singoli componenti l’organismo, perché nessuno possa rifiutare l’osservanza della disciplina, perché quelli che vogliono far osservare la disciplina possano domandare questa osservanza come compimento di un obbligo liberamente contratto, anzi di un obbligo a fissare il quale lo stesso recalcitrante ha contribuito.
Da queste prime osservazioni risulta come l’intransigenza nell’azione abbia per suo presupposto naturale e necessario la tolleranza nella discussione che precede la deliberazione.
Le deliberazioni stabilite collettivamente devono essere secondo ragione. La ragione può essere interpretata da una collettività? Certamente l’unico fa più in fretta a deliberare (a trovar la ragione, la verità) che non una collettività. Perché l’unico può essere scelto tra i più capaci, tra i meglio preparati a interpretare la ragione, mentre la collettività è composta di elementi diversi, preparati in diverso grado a comprendere la verità, a sviluppare la logica di un fine, a fissare i diversi momenti attraverso i quali bisogna passare per il conseguimento del fine stesso. Tutto ciò è vero, ma è anche vero che l’unico può diventare o essere visto come tiranno, e la disciplina da esso imposta può disgregarsi perché la collettività si rifiuta, o non riesce a comprendere l’utilità dell’azione, mentre la disciplina fissata dalla collettività stessa ai suoi componenti, anche se tarda a essere applicata, difficilmente fallisce nella sua effettuazione.
I componenti la collettività devono pertanto mettersi d’accordo tra loro, discutere tra loro. Deve, attraverso la discussione, avvenire una fusione delle anime e delle volontà. I singoli elementi di verità, che ciascheduno può portare, devono sintetizzarsi nella complessa verità ed essere l’espressione integrale della ragione.
Perché ciò avvenga, perché la discussione sia esauriente e sincera, è necessaria la massima tolleranza. Tutti devono essere convinti che quella è la verità, e che pertanto bisogna assolutamente attuarla. Al momento dell’azione tutti devono essere concordi e solidali, perché nel fluire della discussione si è venuto formando un tacito accordo e tutti sono diventati responsabili dell’insuccesso.
Si può essere intransigenti nell’azione solo se nella discussione si è stati tolleranti, e i più preparati hanno aiutato i meno preparati ad accogliere la verità, e le esperienze singole sono state messe in comune, e tutti gli aspetti del problema sono stati esaminati, e nessuna illusione è stata creata. Gli uomini sono pronti a operare quando sono convinti che nulla è stato loro nascosto, che nessuna illusione è stata, volontariamente o involontariamente, creata in loro. Ché se devono scarificarsi, devono sapere prima che può essere necessario il sacrificio. Se è stato detto che l’azione avrebbe portato a un successo, gli è che era stato fatto il calcolo esatto delle probabilità di successo e d’insuccesso, e quelle di successo erano state trovate in maggior numero; se si è detto che sarà insuccesso, gli è che le probabilità di insuccesso erano apparse dalla critica -svolta in comune, senza sotterfugi, senza imposizioni o frette inconsulte e ricatti morali- in maggior numero. Naturalmente questa tolleranza -metodo delle discussioni fra uomini che fondamentalmente sono d’accordo, e devono trovare le coerenze tra i principi comuni e l’azione che dovranno svolgere in comune- non ha a che vedere con la tolleranza, intesa volgarmente. Nessuna tolleranza per l’errore, per lo sproposito. Quando si è convinti che uno è in errore -ed egli sfugge alla discussione, si rifiuta di discutere e di provare, sostenendo che tutti hanno il diritto di pensare come vogliono- non si può essere tolleranti. Libertà di pensiero non significa libertà di errare e spropositare. Noi siamo solo contro l’intolleranza che è un portato dell’autoritarismo o dell’idolatria, perché impedisce accordi durevoli, perché impedisce che si fissino delle regole d’azione obbligatorie moralmente perché al fissarle hanno partecipato liberamente tutti. Perché questa forma d’intolleranza porta necessariamente alla transigenza, all’incertezza, alla dissoluzione degli organismi sociali.
Chi non ha potuto convincersi di una verità, chi non è stato liberato da una falsa immagine, chi non è stato aiutato a comprendere la necessità di un’azione, defezionerà al primo urto brusco coi suoi doveri, e la disciplina ne soffrirà e l’azione si bloccherà nell’insuccesso.
Perciò abbiamo fatto questi ravvicinamenti: intransigenza-tolleranza, intolleranza-transigenza.