Questa canzone mi emoziona da quando sono bambino.
Parla della dignità umana, di chi non cede alla paura e continua a lottare contro l’ingiustizia e l’iniquità, ovunque e comunque, per sé e per gli altri.
I più continuano ancora ad entrare nei loro posti di lavoro, schiavi moderni che vendono la loro vita per quattro soldi al ricco malato mentale di turno. Sempre più precari, sempre più sfruttati, poco importa. Oggi meno in fabbrica, meno nei campi (tanto ci sono i paesi più poveri dove attingere braccia affamate) e più negli uffici, ma la morte interiore è la medesima.
Obiettivo principale: comprarsi un cellulare nuovo, un’automobile, andare ogni tanto a mangiare fuori o al cinema, comprare a caro prezzo un vestito nuovo fatto da schiavi in luoghi lontani dagli occhi e dal cuore: una vita dedita a farsi in fondo null’altro che i fatti propri.
L’unica lotta che è loro rimasta è per poter essere borghesi al punto giusto, così da mascherare con il benavere i sensi di colpa tipici di chi ha ucciso i propri sogni in cambio di una qualche parvenza di comodità, di qualche illusoria certezza di stabilità in un sistema che produce egoisti, arroganti, ignoranti e indifferenti.
Una società di falliti dunque, di incapaci a vedere un’umanità solidale, di vedere l’unità della moltitudine: l’odio verso il povero, l’immigrato, il derelitto, è l’unica cosa che li tiene in vita, una vita finta ovviamente, vissuta a metà tra l’ipocrisia e il lamento, ma che richiede meno sforzi.
Nella lotta per la libertà e la giustizia non si può prescindere dal sacrificio: e per chi crede in un’umanità potenzialmente migliore non è sacrificio, ma un onore dedicare la propria vita alla vita, alla giustizia sociale, al diritto di tutti a vivere e non solo a sopravvivere.
Dite ai vostri figli di venire a sentire, per capire che cosa vuol dire lottare per la libertà.
O cara moglie
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