C’è una sorta di psicosi collettiva in molti di noi che viviamo gli spazi urbani, un’illusione che è diventata la nostra verità. Già iniziamo a subissare l’amministrazione capitolina, di cui faccio parte, di mails e messaggi per chiedere il taglio dell’erba nei parchi: non possiamo lasciare in pace queste povere piantine di poter crescere come vogliono. Pensiamo che un prato curato sia come il salotto di casa, però con le piastrelle verdi. Le manifestazioni dei giovani in tutto il mondo non sono sufficienti a far comprendere che stiamo uccidendo la vita sul pianeta a causa di visioni erronee, a causa dell’arroganza e dell’ignoranza con cui viviamo la nostra vita.
Vogliamo tutti vedere i parchi come fossero campi da calcio infestati da graminacee ben rasate, invece che la bellezza della malva, della piantaggine, del ramolaccio, del grespino, della cicoria e di tutte le altre piante spontanee endemiche tipiche della nostra zona pedoclimatica (qualche giorno fa girava su Facebook un video che considerava come segno di degrado della città un signore che raccoglieva la cicoria in un parco al centro di Roma!).
E poi mangiamo verdure cresciute in serre chissà dove, fuori stagione, stracolme di sostanze tossiche per l’abbondante uso di pesticidi, diserbanti e anticrittogamici di sintesi da parte di aziende prive di scrupolo, il cui unico obiettivo è un arricchimento illimitato per far comprare ai loro proprietari, malati di mente, yacht di 30 metri per trasportare quattro persone. A 50 anni poi ci lamentiamo e ci incattiviamo, perché ci consideriamo sfortunati perché ci è venuto il cancro, senza esserci resi conto di aver assimilato veleni per decenni, di aver vissuto in ambienti contaminati da veleni prodotti dalle nostre stesse automobili.
Abbiamo un’idea malsana della bellezza: è divenuto per noi un parametro puramente formale assimilato dalle pubblicità delle multinazionali. E ci emozioniamo per le linee geometriche finte e innaturali di un paio d’occhiali da sole, di curve o muscoli scolpiti di un corpo editato su Photoshop o migliorato dai software degli smartphone, piuttosto che riempirci di meraviglia e gioia per la natura rigogliosa e splendente che spontaneamente invade ogni dove, della geometria unica di ogni essere.
Abbiamo perso il contatto con il nostro sé più profondo, quello che da quella stessa natura deriva. Abbiamo sostituito all’ordine naturale delle cose l’ordine psicotico nazista d’una perfezione finta, plastificata, che pensiamo possa compensare la nostra sofferenza, determinata da scelte superficiali e infantili e dalla mancanza di carattere per affrontarla.
Se oggi affermare queste cose è impopolare a me poco importa: io non cerco popolarità, cerco giustizia e felicità, ogni giorno. E non si può essere felici in una comunità che non comprende più il valore della natura, della propria innanzitutto. Il rispetto per ogni forma di vita è essenziale per vivere felici. Ma per rispettare veramente bisogna ascoltarsi e ascoltare, non solo parlare, bisogna avere il coraggio di affrontare i conflitti per crescere insieme, non sparire, bisogna assumersi la responsabilità della propria esistenza e, perché no, anche di quella degli altri esseri. Il paradosso della società della comunicazione è che la quantità abnorme di informazioni circolanti (uno studio sostiene che in un anno riceviamo più informazioni di quante non ne ricevesse un uomo del medioevo in una vita!) non sta portando alcun beneficio, perché non sappiamo più distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato e viviamo in questa società “liquida”, come direbbe Baumann, in cui il sapere è diventato istantaneo e diventa presto rifiuto sostituito da un sapere nuovo di cui non si approfondisce né la fonte né la veridicità.
L’essere conta poco o nulla, conta solo l’avere (un prodotto, un lavoro, un amore). L’avere è l’unico parametro di successo o insuccesso nella vita secondo la mentalità dominante: «Dicendo essere o avere, non mi riferisco a certe qualità a sé stanti di un soggetto. Mi riferisco, al contrario, a due fondamentali modalità di esistenza, a due diverse maniere di atteggiarsi nei propri confronti e in quelli del mondo, a due diversi tipi di struttura caratteriale, la rispettiva preminenza dei quali determina la totalità dei pensieri, sentimenti e azioni di una persona.» dice Fromm. Ed è la prevalenza della modalità esistenziale dell’avere che per Erich Fromm determina la situazione dell’uomo contemporaneo, ridotto a ingranaggio della macchina burocratica, manipolato nei gusti, nelle opinioni, nei sentimenti dai governi, dall’industria, dai mass media. Come dargli torto?
In questa epoca le relazioni umane sono diventate “usa e getta” come il “fast fashion” che sta devastando persone e ambiente naturale semplicemente per l’idea malata che vestire due giorni allo stesso modo è da persone fallite. Lo dimostrano i fenomeni che gli psicologi definiscono “ghosting” o “benching”, lo sparire all’improvviso nelle relazioni il primo, il lasciare sempre in bilico e nel dubbio l’altro sulla relazione il secondo, come quando accumuliamo prodotti che sappiamo non useremo più, ma non vogliamo distaccarcene. E ci riempiamo casa di roba che non usiamo più, per il solo fatto che non siamo in grado nemmeno più di affrontare il dolore della perdita di un oggetto. E paradossalmente non ci leghiamo all’altro per paura di perderlo, per paura che ci faccia perdere, perché la nostra visione di fondo è di un mondo brutto e cattivo, dove l’impermanenza della della vita manifesta non è un fatto accettabile e proprio, che dà valore alle cose, ma che lo toglie. “La decisione dei cristiani di vedere il mondo come brutto e cattivo ha reso il mondo brutto e cattivo” diceva Nietzsche ne “La gaia scienza” e questo è un problema, serio come non mai, serio forse come lo è sempre stato.
Ci stiamo facendo del male l’uno con l’altro invece che del bene, pensando che il nostro ego sia sano e pieno solo quando nessuno può muovere alcuna critica su di noi: d’altronde basta interrompere la comunicazione per non sentirsi dire nulla che non ci piaccia, così abbiamo risolto a livello cosciente il problema. Perché il confrontarsi con l’altro sta diventando un problema: ci circondiamo di persone che la pensano come noi e le eliminiamo come sorge un qualsivoglia conflitto. Non coltiviamo più, vogliamo raccogliere e basta senza mai prenderci cura di nulla, in un’avidità malata che non ci porta alla fine altro che a effimere soddisfazioni passeggere, senza alcun beneficio duraturo, senza alcuna evoluzione interiore.
Il punto è che c’è poi un malessere che cresce, che ci porta verso la depressione, la rabbia, la paura e che tentiamo in tutti i modi di nascondere al mondo, ma che non possiamo nascondere a noi stessi. È naturale, entro certi limiti, deprimersi per un lutto, arrabbiarsi per un’ingiustizia, avere paura di farsi male. Diventa malattia deprimersi perché non si può possedere una persona, un automobile, non avere i soldi per farsi un taglio di capelli alla moda. Diventa malattia arrabbiarsi perché qualcuno parcheggia in doppia fila e rallenta i nostri impegni quando siamo noi i primi a parcheggiare in tripla fila per i nostri bisogni. Diventa malattia avere paura di vivere e di confrontarsi con gli altri, considerandoli indegni delle nostre attenzioni, senza nemmeno dar loro il tempo di conoscersi.
Abbiamo un’idea di perfezione malata, irreale, formale: per questo dobbiamo fuggire subito dall’altro, per impedirgli che scopra chi siamo veramente, perché abbiamo una visione di noi costruita nella mente cosciente basata su modelli genitoriali, sociali, commerciali a cui ci conformiamo per non sentirci soli, anche se non ci rappresentano, anche se ci allontanano da noi stessi. E il circolo vizioso della sofferenza non fa che aumentare.
Ci siamo comprati i televisori in alta definizione 4k e poi viviamo il mondo in bianco e nero: abbiamo sostituito alla logica naturale “fuzzy” una logica binaria che taglia tutto con l’accetta, che non è in grado di vedere le sfumature, di osservare con attenzione prima di fare scelte, di assaporare ogni cosa con il giusto tempo. Andiamo sempre più veloci, ma per schiantarci contro i guard rail: la destinazione (il numero delle destinazioni) è diventata più importante del percorso che facciamo per raggiungerla. Di fondo dobbiamo darci tutti una calmata: e ne siamo coscienti, per questo in occidente ci imbottiamo di ansiolitici e anti-depressivi (un italiano su cinque ne fa uso, la Germania, il paese con l’economia e la stabilità maggiore d’Europa ne è il primo consumatore), dandoci quindi una soluzione da bravi consumatori del sistema, ma da pessimi esseri umani.
Le cose più belle della vita mi sono capitate sempre quando sono andato oltre l’apparenza, quando ho deciso di approfondire, di soffrire anche silenziosamente e pazientemente della lontananza di qualcuno per cui provo affetto, perché ho voluto dare fiducia all’altro; quando ho atteso, senza perdermi d’animo e senza perdere me stesso, che l’altro facesse il suo percorso, senza far sì che l’attesa fosse paralizzante per la mia vita. Ho trovato la felicità nelle cose semplici, in quel lato puro e incontaminato che tutti noi abbiamo, che mi ha permesso di vedere in ogni stagione, nel sole come nella pioggia, nel crescere di una pianta come nel suo invecchiarsi e morire, nella gioia come nel dolore, nel lato chiaro come nel lato oscuro di ognuno, bellezza, vitalità, naturale mutamento, uno specchio di me stesso, con i miei successi e i miei fallimenti, i miei difetti e i miei pregi, il mio bene e il mio male. Ho trovato felicità nel prendermi cura della vita fino in fondo, nello sforzarmi contro la pigrizia, nel combattere il mio desidero di fuga trovando la forza di rimanere, di esserci.
La battaglia di oggi è evolvere come specie per impedire che l’ecosistema collassi ulteriormente e abbiamo tutto ciò che ci serve per farlo: un cuore, un cervello, delle mani, studi, tecnologia e informazioni di qualità e quantità mai avute prima.
Il punto è la volontà: ancora c’è chi crede nel destino, chi crede nel caso, chi crede in esseri trascendenti che determinano le nostre scelte; pochi, troppo pochi ancora, hanno il coraggio di sforzarsi con la propria volontà di condurre dove vogliono la propria vita tenendo conto della vita altrui, considerandola, così come la propria, un valore da proteggere, rispettare, sostenere, a volte anche sbagliando, ma senza mai retrocedere, sempre tesi ad evolvere. Senza le piante, gli insetti e gli animali noi come specie semplicemente non esisteremmo. Senza il panettiere che ci fa il pane, senza il contadino che coltiva, saremmo tutti dei morti di fame. Senza la forza evolutiva insita nella vita naturale l’uomo non avrebbe fatto la sua comparsa sul pianeta. Senza coltivare i sentimenti d’amore e d’amicizia non potrebbe esserci felicità alcuna per il genere umano.
Già da oggi quando passeggiate per un parco, iniziate a vedere la meraviglia dell’ambiente naturale non curato, dello spontaneo, riconnettetevi con la realtà e, osservando, iniziate ad imparare il vero significato del prendersi cura di qualcosa o qualcuno, magari raccogliendo una plastica abbandonata da qualche incosciente, salutando con un sorriso chi non conoscete, spezzettando un ramo secco perché torni rapidamente ad essere fertilizzante naturale per il suolo. Oppure non fate nulla, ma cercate solo di vivere con gratitudine quel momento, osservando la danza di un insetto, ascoltando il suono del vento tra le foglie, accarezzando il prato, abbracciando un albero. Scoprirete con sorpresa che quel dolore di fondo pian piano sparisce e lascia il posto alla felicità della pura curiosità scevra di pregiudizi insita nell’uomo sin da bambino, grazie alla possibilità continua di poter agire per migliorare dove viviamo qui ed ora, partendo dal cambiamento di noi stessi. E poi alzate la testa e iniziate a vedere tutti i vostri simili non come nemici, ma come potenziali amici e alleati, con cui discutere e magari anche litigare, ma di fondo perché ci si vuole comunque bene e si cerca l’un l’altro di aiutarsi a migliorare, come in una grande famiglia. Citando Marco Aurelio: “Al mattino comincia col dire a te stesso: incontrerò un indiscreto, un ingrato, un prepotente, un impostore, un invidioso, un individualista. Il loro comportamento deriva ogni volta dall’ignoranza di ciò che è bene e ciò che è male. Quanto a me, poiché riflettendo sulla natura del bene e del male ho concluso che si tratta rispettivamente di ciò che è bello o brutto in senso morale, e, riflettendo sulla natura di chi sbaglia, ho concluso che si tratta di un mio parente, non perché derivi dallo stesso sangue o dallo stesso seme, ma in quanto compartecipe dell’intelletto e di una particella divina, ebbene, io non posso ricevere danno da nessuno di essi, perché nessuno potrà coinvolgermi in turpitudini, e nemmeno posso adirarmi con un parente né odiarlo. Infatti siamo nati per la collaborazione, come i piedi, le mani, le palpebre, i denti superiori e inferiori. Pertanto agire l’uno contro l’altro è contro natura: e adirarsi e respingere sdegnosamente qualcuno è agire contro di lui.“
Combatto ogni giorno dentro me stesso per mantenere il mio cuore allenato a fare tutto ciò e ho trovato nella pratica buddista lo strumento migliore, che consente di riempirmi ogni giorno di gioia ed emozioni per il solo fatto di essere vivo in questa misteriosa, naturale e meravigliosa danza cosmica eterna.
Iniziate anche voi la vostra battaglia interiore per risplendere, con lo strumento che ritenete più opportuno e saremo tutti più felici, perché è nella nostra natura tendere alla felicità affrontando ogni sfida senza scoraggiarsi mai.