Prefazione al libro “La rivoluzione del filo di paglia” di Masanobu Fukuoka
Questo libro è prezioso per noi perché è contemporaneamente pratico e filosofico. È un libro necessario e ispiratore per quanto riguarda l’agricoltura perché non parla solo di agricoltura.
Come molti in questo paese e prima degli altri, Fukuoka ha capito che non possiamo isolare un aspetto della vita da un altro. Quando cambiamo il modo di coltivare il nostro cibo, cambiamo il nostro cibo, cambiamo la società, cambiamo i nostri valori. E così questo libro spiega come fare attenzione ai rapporti fra tutte le cose, alle cause e agli effetti e parla dell’essere responsabili per quello che si conosce.
Quando Fukuoka parla di quelli che chiama i suoi metodi agricoli del «non fare», un occidentale potrebbe opportunamente ricordare Matteo 6,26 :
«Seguite con lo sguardo questi esseri che volano nel cielo: non fanno né semina né mietitura, né hanno granai per ammassarvi qualcosa. È vostro padre, quello celeste, che pensa a nutrirli».
Lo scopo in tutt’e due i casi, mi pare sia di indicarci il nostro giusto posto nell’ordine delle cose: non abbiamo fabbricato né il mondo né noi stessi; viviamo usando la vita, non creandola. Ma naturalmente un contadino non può coltivare senza lavorare, come un uccellino non può trovare il cibo se non se lo cerca. Qui perciò non si parla contro il lavoro, ma contro il lavoro non necessario. La gente a volte lavora di più di quello che ha bisogno per le cose che desidera e alcune delle cose che desidera non ne ha bisogno.
Fukuoka vuole seguire il tema nella sua completezza e non dimentica mai che la sua completezza comprende sia quello che si sa, sia quello che non si sa di esso. Quello che teme nella moderna scienza applicata è il disprezzo per il mistero, la sua disponibilità a ridurre la vita solo a quello che se ne sa e ad agire con la presunzione che ciò che non si conosce può tranquillamente essere ignorato. «La natura come viene afferrata dalla conoscenza scientifica» dice, «è una natura distrutta, è un fantasma con uno scheletro ma senz’anima».
Quella di Fukuoka è una scienza che comincia e finisce nel rispetto, nella consapevolezza che l’umana ragione necessariamente degrada qualunque cosa afferra. Non è il sapere che ci dà il senso della completezza, ma la gioia, che possiamo avere soltanto senza afferrare. Troviamo questo principio confermato in certi passaggi del Vangelo e anche in William Blake:
Colui che lega a sé una gioia distrugge le ali alla vita;
ma colui che bacia la gioia che vola
vive nell’aurora dell’Eternità.
Questa è la grazia che è all’origine dell’intuizione agricola di Fukuoka: «Quando si capisce che si perde la gioia e la felicità nello sforzo di possederle, si arriva all’essenza dell’agricoltura naturale».
E questa agricoltura «naturale» che ha la sua origine e la sua fine nel rispetto è dappertutto umana e sensibile. Gli esseri umani lavorano al meglio quando lo fanno per il bene della gente piuttosto che per una «maggiore produzione» o per «più efficienza», che sono stati gli obiettivi quasi esclusivi dell’agricoltura industriale. «Lo scopo vero dell’agricoltura» dice Fukuoka, «non è far crescere i raccolti, ma la coltivazione e il perfezionamento degli esseri umani». E parla dell’agricoltura come di una via: «Essere qui, prendendosi cura di un piccolo campo, in pieno possesso della libertà e pienezza di ogni giorno, quotidianamente: questa deve essere stata la via originaria dell’agricoltura». Un’agricoltura completa nutre l’intera persona, corpo ed anima. Non si vive di solo pane.
Wendell Berry